ALCUNE SENTENZE DI MOBBING
Mobbing: le regole della Cassazione per vincere in Tribunale
di Patricia Tagliaferri

Qualche scaramuccia con il proprio capo non basta per considerarsi vittima di mobbing e trascinare il superiore davanti al giudice. Per poter parlare di vera persecuzione sul luogo di lavoro senza rischio di smentita occorre che si verifichino alcune condizioni, altrimenti la questione viene archiviata tra gli ordinari contrasti che talvolta sorgono tra colleghi. A dettare le regole per chiedere i danni in caso di vessazioni in ufficio è la Cassazione. I supremi giudici, nel respingere il ricorso di un postino piemontese che nell'inverno del 2001, scendendo dall'auto di servizio, era scivolato su una lastra di ghiaccio battendo violentemente la testa, spiegano cosa si debba intendere per mobbing, per evitare così lunghe ed inutili cause. Il lavoratore in questione, per esempio, avrebbe potuto tranquillamente evitare di rivolgersi all'avvocato. La colpa delle lesioni riportate nella caduta, infatti, per le quali l'Inail gli aveva riconosciuto un'invalidità dell'11 per cento, non poteva imputarsi alle Poste che non lo avevano dotato di scarpe antiscivolo. L'uomo si diceva anche vittima di altri episodi di mobbing. Per i giudici, invece, nonostante l'esistenza di contrasti tra la dirigente dell'ufficio e il dipendente, questi non erano tali «da provare la sussistenza di un intento vessatorio della dirigente dell'ufficio». Per parlare di mobbing ci vuole ben altro. Con questo termine, spiega la Cassazione, si intende «una condotta del datore di lavoro che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo e del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità». Sono quattro, secondo i supremi giudici, i punti imprescindibili per riuscire ad avere la meglio in Tribunale. Occorrono, dunque, «una molteplicità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio». È necessario, inoltre, che i fatti in questione determinino un «evento lesivo della salute o della personalità del dipendente». I giudici della sezione lavoro (sentenza n. 3785) sottolineano, inoltre, la necessità di «un nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio dell'integrità psico-fisica del lavoratore». Ultima regola: deve essere provato l'«intento persecutorio».
Il rapporto conflittuale con il capo maleducato non rientra nel mobbing

Prepotenti strip
Sulle ultime novità in tema di mobbing vi teniamo sempre aggiornati, grazie sullo staff clinico del lavoro del DrJob.
Questa è la Corte d'appello, secondo cui maleducazione e arroganza non bastano a far scattare la fattispecie del mobbing se non vi è “sistematicità degli attacchi in un contesto temporale particolarmente esteso”, finalizzata alla emarginazione/estromissione del dipendente". Il che non significa comunque che offese e volgarità da parte dei capi, anche una tantum, siano un comportamento lecito...o no?

Una recente sentenza della Corte d’Appello di Venezia fornisce un interessante contributo nel vivace dibattito in tema di mobbing.
Un dipendente si lamentava del proprio capo per i toni e i comportamenti improntati ad autoritarismo e maleducazione.
Secondo il dipendente il superiore usava “un linguaggio scurrile”, fumava durante le riunioni, tanto da indurlo “ad aprire le finestre anche in pieno inverno”, aveva spesso atteggiamenti “inurbani” nei confronti dei sottoposti, al punto che alcuni avevano chiesto di essere destinati ad altre mansioni: insomma una condotta improntata a “maleducazione” con gravi ripercussioni nell’ambiente di lavoro.
La Corte d’Appello, confermando la sentenza di primo grado, ha posto una interessante premessa, richiamando il D. Lgs. n. 216/2003 che attua la direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione di condizioni di lavoro e all’art. 2, comma terzo, dà una definizione di comportamento molesto in ambito lavorativo: “sono altresì considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per uno dei motivi di cui all’art. 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”.
Secondo la Corte, questa norma è rilevante nella valutazione del mobbing, ma perché ricorra questa figura è (anche) necessario che: a) i comportamenti persecutori siano molteplici; b) si verifichi un evento lesivo della salute e della personalità; c) vi sia un nesso tra condotta del datore di lavoro o del superiore e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) soprattutto, occorre la prova dell’intento persecutorio finalizzato all’emarginazione del lavoratore.
Tenuti presenti tali principi, la Corte ha ritenuto che anche la conflittualità determinata dalla maleducazione del superiore gerarchico non è di per sé sufficiente a integrare la fattispecie del mobbing.
Maleducazione e arroganza non determinano mobbing se non vi è “sistematicità degli attacchi in un contesto temporale particolarmente esteso”, finalizzata alla emarginazione/estromissione del dipendente.
L’esclusione del mobbing non significa, ovviamente, liceità del comportamento “molesto” , poiché il dipendente potrebbe comunque chiedere un risarcimento danni richiamando la disciplina di cui al D. Lgs. n. 216/2003 e all’art. 2087 cod. civ.( che prevede la responsabilità del datore di lavoro per la salvaguardia dell’integrità psico-fisica del dipendente).
DrJob/Mobbing e molestie sessuali, il datore di lavoro ha l'obbligo di tutelare i dipendenti

Ancora sull'ambiente di lavoro, stavolta con il Dr Job, e sul mobbing, perchè questa sentenza (definitiva) della Cassazione vale in entrambi i casi, mobbing e molestie sessuali, se ho afferrato bene quel che spiega l'ottimo avv. Stefano Beretta. Se non ricordo male invece, nemmeno sulle molestie sessuali sul luogo di lavoro l'Italia è attrezzata con una apposita legge, o sbaglio?
DrJob è a cura di Anna Marino
a cura di Stefano Beretta – Trifirò & Partners.- Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (18 settembre 2009, n. 20272) ha stabilito che tra gli obblighi del datore di lavoro rientra anche il dovere di licenziare il capo responsabile di molestie sessuali nei confronti di una sottoposta gerarchica. Nel caso deciso era risultato che, nel corso di turni notturni, il capo squadra aveva ripetutamente molestato una dipendente, provocando nella stessa conseguenze sullo stato psico – fisico, con ripercussioni anche in ambito familiare. Il datore di lavoro, venuto a conoscenza del fatto, aveva licenziato il capo squadra per giusta causa. Il licenziamento è stato confermato sia dai Giudici di merito che dalla Corte di Cassazione. In particolare, il Supremo Collegio ha ritenuto che “le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., sicchè deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro”.
La sentenza, in definitiva, obbliga il datore di lavoro a intervenire in caso di molestia (o mobbing), anche con i più severi provvedimenti in relazione alla gravità della situazione, con la conseguenza che se il datore di lavoro, messo al corrente, non interviene, ben può essere chiamato a risarcire i danni ai dipendenti oggetto di molestie sul luogo di lavoro.
Un richiamo, dunque, non solo ai responsabili perché si comportino correttamente, ma anche al datore di lavoro affinché intervenga con provvedimenti adeguati alla gravità del caso.
Una sentenza giusta, che ribadisce un importante principio in materia di tutela dell’integrità psico – fisica dei propri dipendenti.
in questa sezione vengono per lo più inseriti commenti a sentenze di mobbing o di straining e non pubblicate le stesse per esteso.,In alcuni casi è inserito il link della sentenza Viene comunque sempre indicata la fonte da cui è stata reperita la notizia